L’editoriale del presidente Giovanni Migliore pubblicato sul Quotidiano del Sud
La sconvolgente escalation di aggressioni delle ultime settimane ai danni di medici e personale sanitario nei pronto soccorso e ospedali di tante realtà italiane ha sollevato non solo un’ondata di sdegno e allarme sociale, forse più da parte degli addetti ai lavori che dei cittadini, ma ha spinto finalmente la politica a immaginare soluzioni per una deriva che al momento sembra irrefrenabile. Per questo, ben venga l’arresto in flagranza differita per i violento, proposto dal ministro della Salute, Orazio Schillaci, in linea con quello che, come aziende sanitarie e ospedali, chiedevamo da tempo. Perché, sarebbe bene ricordare che nelle realtà più difficili de Paese, da anni, si lavora concretamente per rendere più sicure le aree d’emergenza, per filtrare l’accesso dei visitatori in ospedale, e anche per potenziare i sistemi di videosorveglianza.
A far scattare questo momento di maggiore consapevolezza è stata senz’altro la violenta spedizione punitiva organizzata nelle scorse settimane a Foggia, dove decine di parenti e amici di una ragazza deceduta per i postumi di un incidente in monopattino ha aggredito i sanitari del reparto chirurgico del Policlinico, perché giudicati colpevoli di quella morte. La verità dei fatti è in mano agli inquirenti, che faranno chiarezza, ma senza dubbio, l’episodio ha segnato un cambio di passo nella percezione collettiva, perché attuata secondo una modalità di tipo mafioso, premeditata e organizzata, facendo, in un certo senso, “da apripista” nelle cronache giornalistiche, per decine di altri più o meno gravi atti di violenza contro medici e sanitari. Resta sempre il dubbio se continuare a parlarne crea un effetto di emulazione, o al contrario, possa contribuire ad alimentare il dibattito, trovando una via d’uscita. C’è poi un tema di territorio, poiché le tre aggressioni in rapida successione a Foggia, poi i fatti di Pescara, Caserta, Napoli, Cagliari e altre in ordine sparso, hanno fatto ipotizzare a qualcuno che le violenze siano un fenomeno tipicamente meridionale, causato da servizi sanitari peggiori e da un tessuto sociale degradato, ma invece i dati ci dicono che è un trend generalizzato. Forse addirittura più presente al Nord, stando ai numeri Inail che però certificano solo i casi più gravi, che hanno comportato un infortunio. Negli ultimi cinque anni quasi il 60% degli episodi denunciati all’Istituto si è verificato al Nord, il 18% al Centro, il 13% al Sud e il12% nelle Isole. Lombardia ed Emilia-Romagna le regioni più colpite. Una fotografia che però gli addetti ai lavori ritengono parziale, poiché per le regioni del Sud e per le Isole è ragionevole mettere in conto, per ragioni storiche, una maggiore incidenza del fenomeno dell’under reporting. Ma questo andamento è coerente anche con l’ultima relazione dell’Osservatorio nazionale sulla sicurezza degli esercenti le professioni sanitarie e sociosanitarie (Onseps) del Ministero della Salute, in cui si documentano oltre 16mila aggressioni nel solo 2023, a danno di più di 18mila operatori, innanzitutto infermieri e poi medici e altre figure sanitarie. In due casi su tre a farne le spese sono le donne. Si tratta tuttavia di dati approssimati per difetto. In primo luogo, perché mancano le segnalazioni riguardanti una intera regione, la Sicilia, e la quasi totalità delle strutture private accreditate. Poi perché la segnalazione delle aggressioni è volontaria, strettamente collegata alla consapevolezza della importanza del monitoraggio del fenomeno e alla fiducia da parte degli operatori nella possibilità che la stessa segnalazione produca effetti positivi. Le aggressioni sono diventate non solo più numerose, ma più violente con danni ingenti anche alle strutture.
Ci auguriamo che attraverso l’intervento legislativo si possa procedere più velocemente e in maniera più capillare, anche grazie a una disponibilità finanziaria dedicata, perché è evidente che siamo di fronte a un problema particolarmente complesso, con cause interne ed esterne al lavoro delle aziende sanitarie, dall’organizzazione dei servizi ai tempi di attesa, insieme al contesto sociale ed economico dell’utenza, la collocazione e la dimensione delle strutture, ma anche dal lavoro in team o in solitaria, sino alla esistenza di adeguati sistemi di sicurezza e presidi di vigilanza.
Il management delle aziende sanitarie si misura costantemente e da tempo con la prevenzione e gestione del rischio di aggressioni e violenze agli operatori, con piani di intervento specifici, attenzione per la formazione e il sostegno, anche psicologico, per le vittime di aggressione.
Resta, invece, ancora molto lavoro da fare sul terreno della comunicazione, che può giocare un ruolo strategico nel recupero della relazione di fiducia con i cittadini, cruciale per qualunque politica pubblica, in particolare in sanità.
Nel frattempo, dovremo preoccuparci di tutelare i nostri professionisti e operatori. Nessuno deve sentirsi in pericolo perché svolge il proprio lavoro a tutela di un diritto collettivo così prezioso, assicurato dalla Costituzione. Non possiamo militarizzare gli ospedali, ma non possiamo neanche abituarci alla violenza. Per questo è necessario muoversi in fretta, non c’è più tempo, occorre agire, rischiamo di perdere altri professionisti e operatori a causa di questo clima. E non possiamo permettercelo, le strutture fanno sempre più fatica a reclutare personale. Chi aggredisce medici e operatori sanitari commette un ingiustificabile danno alle persone, e mette in serio pericolo il diritto alla salute dei cittadini. Dobbiamo impedirlo.